11 febbraio 2011
Sarajevo

La portavoce dello Youth Initiative for Human Rights dei Balcani, racconta quali obiettivi si sono raggiunti in Bosnia Erzegovina nell'ambito della partecipazione dei giovani al processo di democratizzazione della società. Nonostante molti segnali positivi la memoria della guerra rappresenta ancora un grande ostacolo, specialmente per chi allora era bambino, nel percorso di un futuro comune europeo

Fonte: Unimondo

Articolo di Chiara Turrini in origine pubblicato su Vita Trentina

Sarajevo oggi è una bella città, balcanica e mediorientale insieme. Dall'alto sembra un grande paese; qua e là le guglie di moschee e minareti che spuntano come funghi soprattutto dopo la guerra, qua e là appezzamenti bianchi dei marmi cimiteriali musulmani. La guerra è finita da 15 anni, ma a volte sembra che sia ancora in corso.

Alma Masic è la responsabile dei progetti e dello sviluppo di Youth Initiative for Human Rights  (YIHR), organizzazione regionale non governativa che opera progetti in Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina e Croazia. L'ente è stato fondato nel 2003 da alcuni ragazzi e ragazze di quei paesi, «con l'obiettivo di ampliare la partecipazione dei giovani nel processo di democratizzazione della società, per rinforzare il principio di trasparenza e legalità quando si ha a che fare con il passato - spiega Alma -. E per creare nuovi progressivi collegamenti tra le regioni dell'Ex Jugoslavia toccate dalla guerra».

Oggi YIHR lavora per creare relazioni tra i giovani, specialmente per includere le comunità divise e incoraggiare l'europeizzazione dei Balcani  occidentali attraverso la collaborazione tra giovani dell'ex Yugoslavia. Promuove azioni sociali e politiche in relazione a temi rilevanti per i giovani, compresi lo sviluppo di una cultura della memoria di ciò che è successo in Bosnia negli anni '90, la difesa dei diritti umani e delle minoranze e i processi di europeizzazione nei Balcani.

Chiediamo ad Alma com'è la situazione oggi. La guerra è finita per tutti? «Sfortunatamente no. specialmente non è finita nei cuori e nelle menti di tutte le vittime, in particolare a causa della presenza massiccia del fenomeno del negazionismo. In più, una certa retorica politica proveniente un po' da ogni schieramento mantiene viva nella gente la paura dell'”altro e diverso”, politiche nazionalistiche prevalgono ancora dalla fine della guerra. Comunque ci sono segnali positivi sia dal fronte regionale, basti vedere le mosse dei presidenti croato e serbo, Josipovic e Tadic, sia di quello bosniaco, dove per la prima volta un partito non nazionale, i socialdemocratici, hanno avuto la maggioranza dei voti. Questo però non significa che il passato debba essere spazzato sotto il tappeto, o il contrario. Noi in quanto società dovremmo essere in grado di costruire una nostra cultura della memoria, costruendo la fiducia reciproca e quella nel futuro».

La memoria e il passato sono un problema specialmente per quelli che allora erano bambini.«È difficile per i ragazzi molto giovani capire ciò che accade. Più che altro perché raccolgono una certa storia orale dai genitori, dagli insegnanti, dai media... e per loro è difficile comprendere che anche “gli altri” sono vittime. Oltre alla difficoltà di accettare questo, c'è anche un altro aspetto che rende difficile fare i conti col passato: il pregiudizio. I giovani devono prima combattere contro il pregiudizio e poi essere in grado di parlare di quello che è successo. Per questo la nostra organizzazione si occupa di soggiorni di scambio a livello regionale, esperienze di lavoro in piccoli, isolati villaggi, ma in generale facendo stare insieme le persone».

Non è facile per i giovani prendere atto di ciò che ha direttamente coinvolto la generazione dei loro genitori. «I ragazzi, quando sono messi di fronte al passato, sono confusi, a volte arrabbiati per il fatto che queste cose sono successe. Ma poi realizzano che da ciò si può apprendere una lezione. Capiscono che devono capire il passato, cosicché un domani, quando saranno loro a decidere, saranno in grado di fare tutto ciò che sarà in loro potere per evitare che gli orrori della guerra si ripetano».

È la gioventù il futuro dei Balcani, anche in vista dell'obiettivo europeo. Ma è davvero raggiungibile? «Tra le persone comuni probabilmente sì. Ma i politici non fanno nulla per raggiungere questo obiettivo», risponde Alma, che ha studiato negli Usa per poi tornare e sanare le ferite del suo Paese. «Così le istituzioni e i governi dovrebbero smetterla con la retorica nazionalista e lavorare seriamente e in profondità per il bene di ogni cittadino, senza curarsi della nazionalità».

Quali sono i progetti futuri di YIHR e come possiamo noi italiani partecipare attivamente al lavoro di apertura dei Balcani, chiediamo ad Alma? «Vogliamo continuare a promuovere la memoria e la fiducia reciproca tra i giovani, per lo più usando gli strumenti della cultura, dell'arte, la musica e il teatro. E poi crediamo che le relazioni tra giovani sono il contributo più importante che ciascuno possa dare».

«Così – conclude la dinamica donna bosniaca - il più concreto contributo che può venirci è la creazione di programmi di scambio per i giovani tra Bosnia e Italia, perché ci si possa incontrare, conoscersi e parlare, in modo che la condivisione possa rompere e superare le barriere del pregiudizio, favorendo la conoscenza reciproca».